ACQUISTARE IN SICUREZZA LE PARTECIPAZIONI SOCIETARIE
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Il contratto di compravendita di partecipazioni sociali
e le garanzie del compratore
a cura di
Luca Renna
Avvocato
Consulente legale d’impresa
I termini della questione
Il contratto di cessione di partecipazioni societarie presenta particolari problematiche dovute alla natura stessa dell’oggetto dello scambio e alla qualificazione giuridica che di tale oggetto è stata data dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
E’ evidente che chi acquisisce una partecipazione societaria ha di mira più che l’oggetto immediato del contratto (azioni o quote) quello mediato (patrimonio sociale): secondo la giurisprudenza maggioritaria, tuttavia, il compratore non può dolersi della circostanza che il patrimonio sociale non abbia la consistenza creduta dall’acquirente. L’orientamento della Suprema corte e quello dei giudici di merito è pressoché costante sul punto continuando ad escludere che la consistenza del patrimonio sociale possa incidere sul negozio di cessione di partecipazioni societarie.
Accade, assai frequentemente e con esclusione delle ipotesi in cui si tratti di contratti di una certa importanza economica, che il compratore, una volta completata l’acquisizione o anche prima, nel caso di gestione dell’impresa in un momento antecedente al closing, si accorge della minore consistenza patrimoniale, finanziaria o reddituale della società. Si attua, in tal modo, una divaricazione tra la configurazione giuridica del contratto (vendita di azioni a fronte del pagamento di un prezzo) e l’operazione economica che l’acquirente aveva intenzione di portare a termine (verrebbe da dire la causa concreta del contratto di acquisizione).
Occorre, dunque, affrontare la questione relativa alla possibile mancanza di garanzie e ai rimedi azionabili dal compratore in simile ipotesi.
- I rimedi azionabili nel caso di vendita di partecipazioni societarie
La posizione assunta dalla giurisprudenza è una diretta conseguenza dell’accoglimento delle critiche che parte della dottrina aveva, già oltre settanta anni fa, mosso ad una decisione della Suprema corte (GRECO, Le società di comodo e la vendita delle loro azioni, in Riv. Dir. Comm., 1935, II, 128, nota a Cass. 27.7.1933, in Riv. Dir. Comm., 1935, II, 121). Secondo l’Autore, la cessione delle azioni non comporta il trasferimento del patrimonio sociale, né potrebbe configurarsi come un negozio indiretto al fine di raggiungere detto scopo: pertanto, il compratore potrebbe tutelarsi nel caso di consistenza patrimoniale diversa da quella creduta o nel caso di evizione soltanto inserendo nell’accordo opportune e specifiche clausole. Veniva, poi, precisato che, fatta eccezione per le società fittizie (dove l’appartenenza dei beni societarie in capo ai singoli soci è una diretta conseguenza dell’applicazione delle disposizioni in materia di simulazione) o in ipotesi di società familiari o di comodo si poteva mantenere ferma la distinzione tra la personalità giuridica della società e quella dei soci.
Le aspre critiche sopra ricordate contribuirono a bloccare qualsiasi tentativo della giurisprudenza di tutelare il compratore in un’operazione di acquisto di partecipazioni societarie, tutela che, agli occhi dell’imprenditore, non necessiterebbe di alcuna spiegazione.
Le critiche mosse dall’Autore prima ricordato a tale decisione hanno avuto singolare fortuna e detta impostazione è stata seguita in maniera quasi tralatizia fino ad oggi, non solo dalla giurisprudenza, ma anche da parte della dottrina, con una sostanziale uniformità di vedute nel ritenere che, ad eccezione in cui il compratore abbia ottenuto l’inserimento di esplicite garanzie sulla consistenza del patrimonio sociale, questi non potrà agire contro il venditore nell’ipotesi in cui tale patrimonio risulti inferiore a quello creduto.
Nettamente minoritarie sono state, pertanto, quella dottrina e quella giurisprudenza che, partendo dal presupposto che le azioni siano da considerare quali “titoli rappresentativi della cosa”, hanno ritenuto che il trasferimento della società poteva considerarsi quale mezzo per trasferire i beni societari.
Si è cercato, quindi, di tutelare il compratore, sempre nei casi in cui questo non si fosse dotato di autonome garanzie, ricorrendo ad altri rimedi previsti dal codice civile e, a seconda del caso concreto, si è fatto ricorso alla disciplina dell’annullamento per errore o per dolo determinante, a quella della rescissione, alla disciplina in tema di vizi o di mancanza di qualità essenziali o promesse, ed, ancora, alla figura dell’aliud pro alio datum o a quella della presupposizione.
Cominciando dai rimedi previsti per i vizi genetici del rapporto, è stata ritenuta inapplicabile la disciplina dell’errore, possibilità esclusa quasi unanimemente dalla giurisprudenza e dalla dottrina. Infatti, l’errore in questione dovrebbe essere sulla consistenza patrimoniale, ma questo è un errore sul “valore” non potendosi, pertanto, ritenere essenziale ai sensi degli artt. 1428 e 1429 c.c. Come ricordato spesso in motivazione nelle decisioni che hanno affrontato il problema, non può farsi rientrare il valore economico dell’azione tra le qualità di cui all’art. 1429, n. 2, c.c., neppure quando il bilancio della società pubblicato prima della vendita sia falso o nasconda, comunque, una situazione in virtù della quale dovrebbero applicarsi le norme in materia di riduzione del capitale sociale.
Inoltre, l’errore sul valore della consistenza del patrimonio sociale non è riconoscibile essendo impossibile ricorrere al criterio del valore reale come termine di riferimento per l’impugnativa del prezzo contrattuale.
In pratica, le qualità possedute dalle azioni determinanti del consenso, secondo quello che è il comune apprezzamento, si limiterebbero a quelle che attengono alla funzione tipica delle azioni predette, cioè a dirsi all’insieme di facoltà e diritti che esse conferiscono al loro titolare all’interno della società, senza considerazione alcuna in merito al valore di mercato di esse, quale può risultare dal bilancio, dallo stato patrimoniale della società e da tutti gli altri elementi che influiscono sul loro valore (Cass. 21.6.1996 n. 5773; Cass. 13.12.2006 n. 26690).
Maggiori possibilità di successo avrebbe, invece, il compratore che invocasse quale vizio del consenso il dolo usato dal venditore, dovendo, peraltro, fornire la prova degli artifici o raggiri usati dal primo su uno o più aspetti determinanti o, quanto meno, incidenti: nel primo caso il compratore potrà agire per la risoluzione del contratto, nel secondo caso per ottenere il risarcimento del danno. Peraltro, sono rare le decisioni di annullamento per dolo.
Interessante, anche perché resa dal Tribunale a cui fate riferimento, una decisione resa in una fattispecie di malizioso occultamento, da parte del venditore, dell’effettiva situazione patrimoniale della società. Si tratta di Trib. Milano, 25 agosto 2006, secondo cui:
“Il malizioso occultamento della situazione patrimoniale effettiva della società può integrare causa di annullamento del contratto per dolo” (nello stesso senso, Trib. Milano, 13 gennaio 2005).
Altresì interessante è Trib. Milano, 4 giugno 1998. Si tratta va di una fattispecie in cui, in sede di trattative per l’acquisto di un rilevante pacchetto azionario, si era fatto riferimento ad una situazione patrimoniale predisposta dagli amministratori, poi condannati per il reato di false comunicazioni sociali. Nel successivo e conseguente contratto di vendita non veniva però espressamente richiamato il prospetto contabile, né erano previste clausole di garanzia a favore dell’acquirente circa la consistenza patrimoniale della società. Accertato che l’acquirente era stato indotto in errore circa l’effettiva consistenza patrimoniale della società mediante artifici e raggiri e che, tuttavia, anche senza il comportamento decettivo egli avrebbe comunque concluso il contratto pur se a condizioni diverse, in pratica ad un prezzo minore, il Tribunale meneghino ha ritenuto sussistenti tutti i presupposti per poter applicare l’art. 1440 c.c. in materia di dolus incidens e condannare, conseguentemente, la parte alienante al risarcimento del danno quantificato in base al deprezzamento percentuale delle azioni quale poteva ricavarsi dal raffronto tra il loro prezzo di vendita prima e dopo l’emersione della reale situazione economico–patrimoniale della società.
E’ stata, poi, affrontata l’ipotesi dell’annullamento per rescissione per lesione ma la Suprema corte, relativamente alla fattispecie in esame, dichiarò di non poter decidere per motivi processuali non essendo stata proposta la relativa domanda nel giudizio di prime cure. Tuttavia, si tratta di caso limite difficilmente verificabile in concreto; infatti, perché sia azionabile il rimedio de quo occorre la simultanea presenza dei tre requisiti indicati dall’art. 1448 c.c. (eccedenza di oltre la metà della prestazione in confronto dalla controprestazione; l’esistenza di uno stato di bisogno; l’approfittamento di tale stato di bisogno); inoltre, “la lesione “ultra dimidium” è certamente ardua da provare, data l’elasticità e soggettività dei criteri di valutazione delle azioni”.
E’ stata, poi, ipotizzata l’utilizzabilità del rimedio della risoluzione del contratto per consegna di aliud pro alio datum. Come è noto, tale figura è stata creata dalla giurisprudenza per venire incontro all’esigenza di eludere i brevi termini di decadenza e prescrizione previsti per il compratore per l’utile esercizio dei rimedi contro i vizi e la mancanza di qualità di cui agli artt. 1495 e 1497 c.c.
Si ritiene sussistere aliud pro alio non solo in ipotesi di consegna di genere o specie del tutto diversi, ma anche nel caso in cui la diversità abbia ripercussioni sulla funzione economica della cosa. Sono stati, così, ritenuti integrare ipotesi di aliud pro alio la compravendita di azioni o quote “quando il venditore aveva garantito che esse si riferivano a determinata azienda con impianti industriali aventi determinate caratteristiche, e risulti che l’una o gli altri sono diversi o inefficienti”, il trasferimento di azioni di azioni di società fallita, sciolta o in liquidazione posto che è innegabile che le stesse “siano un quid di diverso rispetto alle azioni di una società operante; non è questione di valore, bensì di identità (o di qualità essenziali) della cosa” ed, ancora, l’ipotesi in cui la società svolga attività diversa da quella indicata nel contratto di vendita; oppure nel caso di consegna di azioni di categoria diversa o, secondo ASCARELLI (Sui limiti statutari alla circolazione delle partecipazioni azionarie, in Banca borsa tit. cred., 1953, I, 290 ss.), nel caso in cui nello statuto sia prevista una clausola di gradimento.
E’ da ricordare che, di recente, la Suprema corte ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, peraltro avverso una decisione proprio della Corte d’appello di Milano, che aveva escluso la proponibilità di un’azione di risoluzione per la vendita di aliud pro alio (Cass. civ., 9 novembre 2004, n. 18181, in una fattispecie in cui, successivamente alla stipula del definitivo, si erano accertate irregolarità fiscali nella gestione della società con conseguente irrogazione in danno della stessa di sanzioni tributarie di importo elevatissimo che ne avevano determinato il fallimento).
Si è, inoltre, prospettata l’ipotesi della presupposizione. La presupposizione è categoria di creazione pretorile e, secondo l’insegnamento della Suprema corte (ex multis, Cass. civ., 5 gennaio 1991, n. 191), essa consiste in una situazione di fatto, passata, presente o futura, certa nella rappresentazione delle parti, di carattere obiettivo che, pur in assenza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali, possa ritenersi tenuta presente dai contraenti, nella formazione del loro consenso, come presupposto comune avente valore determinante ai fini dell’esistenza e del permanere del vincolo contrattuale. Un istituto, quindi, che, sempre secondo la giurisprudenza, è stato introdotto nel nostro ordinamento dall’art. 1467 c.c. (già Cass. n. 1619/1947 si esprimeva in tal senso).
In realtà, in questo modo si confonde presupposizione con sopravvenienza e l’istituto avrebbe applicazione limitata posto che si riferirebbe solo ai contratti di cui all’art. 1467 c.c. e produrrebbe effetti sul vincolo contrattuale solo ove la sopravvenienza presentasse i caratteri dell’imprevedibilità e della straordinarietà.
Pare allora doversi concordare con quella parte della dottrina (Mengoni) che ha individuato il fondamento della presupposizione nella sussistenza di una regola generale valevole per ogni tipo di contratto secondo cui la permanenza al vincolo va legata alla condizione (non in senso tecnico) rebus sic stantibus. Non sono, dunque, necessari i presupposti di cui all’art. 1467 cc. Venuta meno la situazione presupposta, il contratto si risolve con effetti ex tunc.
Nel caso di compravendita di partecipazioni sociali, solo in un caso la Suprema corte ha ritenuto sussistere i requisiti per poter invocare la presupposizione. Si trattava della vendita di un panfilo attraverso la vendita dell’intero pacchetto azionario delle società proprietarie di tale cespite. La sopravvenuta indisponibilità del bene, secondo la Cassazione, avrebbe comportato la risoluzione del contratto.
La sentenza, che ha riscontrato il favore di autorevole dottrina, adotta l’impostazione di un illustre Maestro secondo cui “di fatto, la teoria della presupposizione è l’unica che consenta di “squarciare il velo” dell’appartenenza alla società del dato bene, allorché le parti, per negoziare quel dato patrimonio, negoziano quote societarie … Gli artt. 1480 ss. c.c. sono inapplicabili. Se il venditore è in buona fede, l’unico rimedio è dato in ragione della presupposizione” (Sacco).
La strada della presupposizione, a mio modesto avviso, potrebbe portare ad esiti inaspettati e, comunque, favorevoli per il compratore che, assai incautamente, non ha provveduto ad inserire nel testo dell’accordo apposite clausole di garanzia, on tanto se si continua a considerarla, come ha fa la giurisprudenza, quale condizione implicita, quindi, inespressa, bensì se la si rapporta alla causa in concreto. Sono noti i dibattiti e le questioni sull’utilità o meno del mantenimento della causa quale funzione sociale del particolare contratto che le parti hanno deciso stipulare. Assai più pertinente è, invece, l’individuazione della funzione economico-individuale dell’accordo che le parti si sono prefisse nell’addivenire ad un determinato accordo patrimoniale.
A conforto di tale impostazione può citarsi la oramai famosa sentenza della Cassazione (Cass. civ., 25 maggio 2007, n. 12235) secondo cui il contratto può essere risolto anche nel caso in difetto sopravvenuto della causa in concreto, ossia l’impossibilità sopravvenuta di realizzare l’assetto d’interessi contrattuale. La portata innovativa della decisione la si evince se si tiene a mente che le precedenti e recenti sentenze sul tema (Cass. civ., 22 febbraio 2005, n. 3579; Cass. civ., 24 marzo 2006, n. 6631), evidenziando il carattere composto dell’istituto della presupposizione, avevano ritenuto che lo stesso si colloca in una zona intermedia tra condizione risolutiva implicita e venir meno della causa in concreto.
- La sentenza della Suprema corte del 20 febbraio 2004, n. 3370.
E’ in questo panorama giurisprudenziale e dottrinale che si inserisce una recente sentenza della Suprema corte che ha avuto una notevole eco in dottrina e che si segnala per la maggiore tutela che appresta al compratore nel caso di vizi o di mancanza di qualità dei beni ceduti (nella particolare fattispecie l’acquirente si doleva della mancata voltura di una licenza commerciale).
La decisione è stata salutata con enorme, e forse eccessivo, entusiasmo da quella parte della dottrina che ha ravvisato in essa la prospettazione di una perfetta coincidenza tra cessione di azioni o quote societarie e trasferimento dei beni della società, dal momento che “i beni sociali non sono, per il cedente, beni di un terzo, dei cui vizi o delle cui qualità mancanti il cedente, in linea di principio, non può essere chiamato a rispondere”.
La sentenza sembra, quindi, rompere con il quasi monolitico orientamento secondo cui il trasferimento di partecipazioni societarie, rilevanti o totalitarie, ha quale oggetto lo status socii (e, quindi, esclusivamente le posizioni attive e passive che a questo ineriscono), motivo per il quale eventuali vizi o mancanze di qualità inerenti il patrimonio sociale non possono assumere rilevanza alcuna, all’infuori dell’ipotesi in cui siano state fornite specifiche garanzie da parte del venditore.
La sentenza, tuttavia, seppur ha l’indubbio merito di cercare di attenuare il problema della scarsa tutelabilità dell’acquirente di partecipazioni societarie nel caso di mancanza di esplicite garanzie prestate dal cedente, non sembra fare corretta applicazione del principio secondo cui le azioni sono beni “di secondo grado”. Lo stesso Ascarelli (a cui si deve l’elaborazione del principio appena ricordato) riteneva che fossero necessarie specifiche garanzie sulla consistenza patrimoniale della società al fine di poter applicare le norme dettate in tema di vendita non potendo detto principio, di per sé, giustificare una piena assimilazione della vendita di partecipazioni societarie al trasferimento dei beni sociali. Di tanto, peraltro, ne sembra consapevole la stessa Corte che perimetra la tutela del compratore, sempre nell’ipotesi di mancanza di garanzie specifiche, al caso in cui sia ravvisabile un affidamento di questi alla stregua del principio di buona fede. Peraltro, viene escluso che le clausole di garanzia possano essere qualificate come promesse rilevanti ex art. 1497 c.c.; inoltre, pur facendo applicazione della disposizione prevista da detto articolo, la tutela del cessionario sarebbe limitata ai ristretti limiti temporali di decadenza e prescrizione richiamati dalla norma, termini la cui inadeguatezza è stata sottolineata da più parti.
Era sembrata, dunque, eccessiva l’affermazione secondo cui la decisione consentiva, in via definitiva, un decisivo superamento dei limiti che sono stati tradizionalmente posti alla responsabilità del cedente (così, con la solita lungimiranza, GALGANO, Cessione di partecipazioni sociali e superamento dell’alterità soggettiva fra socio e società, in Contr. impr., 2004, 543).
L’enfasi data alla decisione era stata, comunque, eccessiva tanto è vero che l’apertura della Suprema corte non aveva spostato la posizione della giurisprudenza visto che, nelle prime sentenze successive a detta sentenza, si era deciso che “Qualora il patrimonio sociale sia diverso da quello creduto ovvero le partecipazioni societarie non abbiano il valore creduto, non può essere impugnato il contratto di cessione delle partecipazioni stesse per vizi del consenso o mancanza delle qualità promesse, salvo le ipotesi di dolo ovvero inadempimento delle prestate garanzie circa la consistenza del patrimonio sociale” (così, Trib. Milano, 13 gennaio 2005, in Giur. it., 2005, 749; nello stesso senso, Trib. Milano, 15 febbraio 2006, ivi, 2006, 757).
La sensazione resta, dunque, quella che, se pur un modesto passo in avanti sia stato fatto al fine di tutelare maggiormente l’acquirente, nonostante la molteplicità dei rimedi astrattamente dallo stesso disponibili, la sua tutela effettiva era legata, nel caso deciso, più alla sua singolarità che all’applicazione di soluzioni pensate o previste.
- Le clausole di garanzia
Proprio al fine di evitare di incorrere nei problemi e nelle difficoltà appena esaminate, è opportuno introdurre, ed è prassi che anche in Italia è seguita da orami circa un trentennio, opportune clausole contrattuali che hanno un duplice scopo:
1) evitare di fare affidamento solo sui rimedi generali e specifici previste nel codice civile e, quindi, evitare la limitata applicabilità delle garanzie previste ex lege, e
2) porre in risalto l’effettivo oggetto del contratto, identificando le poste del patrimonio sociale che l’acquirente ha tenuto in considerazione per concludere l’accordo e dotarsi delle opportune garanzie nel caso in cui la situazione economica, patrimoniale, reddituale e finanziaria della società non risulti conforme a quanto dichiarato dal venditore.
Si tratta delle c.d. representations and warranties, ovvero dichiarazioni e garanzie.
Consentendo il rinvio su tali clausole a quanto diffusamente argomentato in RENNA, Compravendita di partecipazioni. Dalla lettera di intenti al closing, Zanichelli, 2015, va qui sottolineato con forza che un contratto di compravendita di partecipazioni sociali deve essere necessariamente preceduto da un’approfondita due diligence e deve essere strutturato in maniera tale da prevedere sempre, oltre all’inserimento delle c.d. representations, l’inserimento di clausole di garanzia del compratore, le cc.dd. legal warranties e, soprattutto, le business warranties.
Sinteticamente, le business warranties si suddividono in clausole sintetiche e clausole analitiche. Tra le clausole che non dovrebbero mai mancare si possono ricordare: la garanzia sintetica di bilancio o la garanzia analitica sulle singole poste di bilancio (meglio se il redattore del contratto provvede ad inserire sia l’uno tipo che l’altro), la c.d. material adverse change clause, clausola con cui il compratore si riserva la facoltà, al verificarsi di mutamenti imprevedibili, di recedere dal contratto, la clausola sulle sopravvenienze passive e sulle insussistenze attive, la clausola sul contenzioso e, assai importante in alcune ipotesi, la clausola sulla reddività (c.d. earn out clause).
- Conclusioni
Da quanto sopra ricordato in relazione alla particolarità del contratto di acquisizione di partecipazioni societarie, all’orientamento predominante in giurisprudenza in merito all’affidamento del compratore circa la giusta rilevanza giuridica al patrimonio sociale rappresentato dalla partecipazione, è evidente che il soggetto interessato all’acquisto di una partecipazione sociale dovrà aver cura di far inserire, attraverso un’opportuna e molto spesso lunga e faticosa negoziazione, esplicite clausole di garanzia che lo tutelino in merito alla consistenza del patrimonio sociale e, se del caso, al redditività della società target.
Lecce, 07/10/2016
Avv. Luca Renna